Chiuso per cessata attività

07.11.2020

Ho perso il conto di quante volte abbia immaginato la mia scomparsa. Non dico, per sinonimia, di morte. Ho ipotizzato la mia non più fisicità rimanendo, seppure, nel mondo reale. C'è il mio non-più-corpo, forse la mia ombra o ciò che rimane del Geist che, ora, gira tra le stanze di casa, spostandosi poi per le vie del centro e, qualche minuto dopo, a recarsi alla stazione verso una meta casuale - che poi, c'è poco da scegliere: direzione Capitale o località marittima? - e così via. Probabilmente, le prime ore sarebbero sconcertanti per coloro, a me più cari, cui non giunge più la mia presenza. Sapere dove sia, perché non abbia recapitato loro un messaggio. Magari la storia si propagherebbe per giorni. Poi, il momento di rottura: l'accettazione. Una ragione che piomba dal cielo, la stessa cui, si suppone, non esista. L'impossibilità ad accettare la scomparsa è un fantasma che perseguita l'individuo rimasto incollato al suolo, tale per cui ha la responsabilità di spostare la concretezza della persona trapassata o, semplicemente, svanita ad un macigno, anch'esso invisibile ma, al contempo, dalla smisurata pesantezza, volto alla proiezione implicita di ciò che, attualmente, non è di fronte agli occhi. Il giro del nastro comincia a correre, il riavvolgimento diviene sempre meno complicato. Gli sceneggiati impressi nei negativi, visti e rivisti, hanno fornito un giusto apporto di benessere a contrasto per cui l'uomo al suolo riesce a convivere tra schermo e realtà. Il fantasma, però, è lì ad osservare il senso fittizio di quiete, ben sapendo che, con il Geist, l'uomo al suolo non ha mai comunicato. Penso a tutti quei fantasmi che ascoltano i nostri discorsi con le loro rispettive proiezioni, le descrizioni che ne facciamo pensando a loro quand'erano, fisicamente, dinnanzi a noi. Perché i fantasmi, sottolineo, sono onniscenti. Si può mentire all'organismo, alla statua biologica, ma non al Geist. Né a quello altrui, nel dopo-reale, né al proprio, fino al punto di spegnimento. E allora chiedo: fino a quando continueremo a dire menzogne? A sprecare le energie, a logorare il sistema, in nome dell'ansia, della paranoia e/o del giudizio? Qual è la sede legale della corte in questione, se non nelle menti di ciascuno? Avrei piacere, un giorno, di recarmi di fronte a quel giudice. No, non può essere un garante della legge. Penso, piuttosto, sia qualcuno che, la legge, se la sia scritta secondo i propri interessi. Un tiranno, della peggiore specie. Non il tipo di persona che esercita il potere con la paura e le armi; al contrario, manipola il volere tramite consigli amichevoli. "Non scontentare nessuno. Te ne pentiresti. Difficile sarebbe poi tornare indietro". Il giudice-tiranno non ha un volto ben definito: è possibile, talvolta, ammirarne il riflesso alla mattina, durante il lavaggio del viso. Soprattutto nelle situazioni in cui il sapore scivola tra le palpebre, la vista si offusca e qualche lacrima va a mischiarsi all'acqua corrente nel lavandino. Ecco, nel momento in cui alzo la testa al cospetto dello specchio per osservare se le vene, come radici, abbiano già circondato l'iride, intravedo sovente questo soggetto indiscreto. Lo vedo saltellare tra i sentieri intermittenti che si sono appena andati a tracciare. E allora strizzo forte, sciacquo con acqua fredda, asciugo il volto e attendo che la puntata finisca. Ce ne saranno altrettante, a seguire, fino alla rescissione del contratto. Il problema di fondo risiede nel trovare il pezzo di carta e stracciarlo, o almeno non continuare a prorogare la serie, che tratta una storia di cui l'unico spettatore sono io, sin dal giorno in cui ho acquisito consapevolezza del mio essere. Il termine della registrazione non arriva, però, con l'annullamento: il corpo non è l'allegoria del contratto. Tantomeno, il canovaccio della pièce. Le battute vengono scritte dalle azioni, sia quelle prese in totale autonomia che forzate. Dagli ideali, le riflessioni. Dalle rinunce e dal tempo procrastinato. Dalla resa nell'accettare qualsiasi battuta proveniente da un altro schermo con il fine di migliorare il nostro spettacolo. E se lo spettacolo personale viene scritto a più mani, eccetto le proprie, legate ormai dalle repliche cui non si è avuto più il coraggio di proporre per la messa in onda, al termine delle registrazioni verremo catapultati nel tunnel delle scene tagliate. Una galleria composta da gesti mai compiuti, opere a metà. Non si trovano soltanto prodotti cinematografici, nel posto: tra l'asfalto è possibile ammirare artefatti culturali incompleti, documenti stralciati, foto sfocate e barattoli di vernice rovesciati, il cui contenuto è andato immischiandosi con colori non affini. Dopo aver immaginato il mio-non-più corpo dall'esterno, ho cercato di analizzare il focus in modo implicito. Ora il fantasma-Geist è un Doppelganger, assumendo la difesa del mio corpo imprigionato nel tribunale del giudice-tiranno. Cerco, sovente, di collaborare, da buon assistito. L'unico, enorme, ostacolo che mi si presenta ogniqualvolta mi trovo a dialogare con lui, nell'ufficio della solitudine, è che parlo quasi sempre con l'ausilio della menzogna. Seppure non ci senta alcuno. Seppure, so che opera per il mio bene. L'avvocato-Doppelganger, sebbene sia consapevole della mia non collaborazione, non abbandona l'incarico e continua ad assistermi, anche quando tento la fuga dalla sua compagnia. Subentra il vuoto, spaventosamente silenzioso, terribilmente alienante. Attimi in cui il computer smette di processare i dati, sia in entrata che in uscita. Le uscite audio magicamente bruciano, insieme alle anime del giudice-tiranno e dell'avvocato-Doppelganger. E non rimane che il mio organismo, la proiezione del fantasma. O forse il fantasma è la proiezione dell'organismo. Più probabile è il fatto che, con la scusa del muto, non voglia più sentire ciò che agli altri pensino o che la mia mente pensi, quest'ultima che sia veicolata dagli altri o dal volere personale. Vorrei solo inserire il giudice-tiranno e l'avvocato-Doppelganger in una bolla e, in un'altra, il mio corpo e il fantasma-Geist. Spero che il vento soffi forte, alla pari della mia esasperazione e contestualmente all'enunciato appena prodotto, e che tutti levitassimo: noi bolle, le parole, gli articoli e i verbi, tutti verso una galassia composta da oggetti sconosciuti. Tanto per avere almeno la soddisfazione di aver volato, di aver seminato dei resti tra le stelle e, per un po', di aver cessato l'attività. 


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