InterMittente
Interruzioni e riprese asimmetriche sono le cellule componenti il mio organismo. Le linee rette, l'ordine, l'armonia. L'accordo categorico con l'essere. Mi disturba, oppure provo invidia nei confronti di coloro a cui, contrariamente, dona sollievo. Beh, non è proprio il termine più adatto, quello che riconduce al desiderio di uno stato altrui. Effettivamente, ho sempre ricacciato tale sensazione dal mio Geist. Alquanto ridicola, banale e scontata, più di un prodotto a metà prezzo in un discount. Forse perché, l'invidia, proviene dalla medesima radice delle linee rette e delle simmetrie. Gelosia e geometria. L'una è una perfezione che non appartiene all'essere in causa e l'altra... neppure. Vedo più la mia vita come i colori fuori bordo di un bambino ancora inesperto nella pratica del disegno. Ho sentito il giallo e ciò mi suscita qualche dubbio: un colorito acceso e vivace, come la superficie concessa da me nel quotidiano. Ma se dovessi scegliere un tono per la parte interna, probabilmente apparterrebbe ai colori terziari, a una determinata gradazione la cui frequenza darebbe il risultato esatto solo e soltanto al mio spettro visibile. O forse dentro a esagerare l'unicità della mia Sehnsucht. Sono un'iperbole umana, talvolta. Lo ammetto. Ciò non decrementa, altresì, quel vortice che trascina e rimanda alla luce il mio Io: un piccolo corpo si dimena tra onde velocissime, intangibili eppure taglienti, poiché capaci di ridare lo scenario dell'inadeguatezza con la soluzione al problema appena trascritto. Al contempo, cade un velo sopra alla testa dell'omino tale per cui lo scritto, portato via dall'aria, non è stato possibile di visionarlo e, perciò, ecco che il senso spiacevole comincia a pervadere, in modo lento, ciascuna componente della metariproduzione di un invisibile inquilino della mia persona e che però sento dentro. Un po' come le madri con un feto in grembo ma meno invadente, Sento di autoinvadere la mia pazienza con queste digressioni di nulla utilità sociale. Mi fa stare, tuttavia, leggermente meglio, azzarderei leggermente-più-leggera. Accompagnata dalle perturbazioni fuori dalla finestra, la cadenza delle mie mani sui tasti diviene sempre più decisa. In verità, da un po' di giorni ho perso la bussola riguardo all'intenzione nello scrivere. Avevo comunque fatto una promessa al mio Io: scrivere anche quando non avrei avuto nulla da dire. Effettivamente, una volta cominciato a digitare una serie di lettere che a loro volta formano parole, nella sommatoria enunciati e via dicendo, si concretizza un piccolo inciso volto a tenere a mente anche il vuoto. Bisognerebbe dare più importanza alla vuotezza, al nulla. Sbagliato è crocifiggere i momenti che incatenano le lancette dell'orologio, quelli che accrescono un misto tra noia e agitazione. Perché, se usati per uno scopo che, nonostante la noia, viene reputato fondamentale, potrebbe nascerne qualcosa di utile e/o interessante. Oppure un oggetto di totale assenza d'interesse, una crosta da lavare via tra pagine bianche e macchie d'inchiostro. Fa lo stesso: la risultanza è che il tempo è stato impiegato. Ciascuna esperienza, prescindendo dal conto, lascia dei minuscoli geroglifici lungo le pareti della caverna, che situerei al di sopra del contenitore di cui ho spesso immaginato la presenza nella parte profonda di Ognuno. Questo enorme barattolo, potremmo supporre, sia superficialmente lacustre e, l'ingresso, è affiancato dalla Caverna-Taverna esperienziale. Lì si radunano le vicissitudini per decretare la significanza di esse. La parte buona viene trascritta e il restante gettato nel contenitore. Personaggi illustri e ben prima di questi miei voli pindarici, supponevano un cervello computazionale oppure connesso con l'apparato motorio. Memoria filtrata dall'interno o in connubio con l'agire, la comunanza risiedeva nel nucleo. O almeno l'ho appena deciso io, dall'alto delle mie creazioni - aggiungerei: non è meraviglioso scrivere a ruota libera? Fosse un articolo dedicato o un saggio, verrei accusata di "ciarlatagine" -. Il nucleo appena designato (per meglio dire, disegnato) è un filtro che raccoglie ciascuna delle esperienze, e che io ho appena indicato quale Caverna-Taverna. Ho a cuore l'embodied cognition e i risultati che nel corso degli anni ha ottenuto questo studio. Anzi, riflettendoci, è proprio nel momento in cui si agisce che le emozioni prendono una sostanza non verosimile, non veritiera. Vera come una pietra. La stessa che, sovente, ci cade in testa ed era più saggio restarsene a speculare dal divano delle proprie quattro mura. Non so come sia arrivata fin qui, considerando che avrei avuto piacere - anche qua, se così si può intendere l'origo del mio intento - parlare della flebilità del benessere. Una caducità ripetuta ora più velocemente rispetto a periodi passati, porta il mio Io-odierno a soffrire l'esistenza di tutti giorni senza, tuttavia, compiere un movimento relativamente allo spostamento dello status quo. Spiegandomi: vorrei possedere un'enorme gomma da cancellare e fare tabula rasa, ricominciare daccapo il testo (del capitolo in questione, mai nell'interezza dell'opera) e correggere quello che desta i miei malumori. Non so per quale motivo risulta assai complicato, dal momento che il libro non è andato mai in stampa. L'unico, monotono e noioso lettore sono io. Il ritorno del Doppelgänger, Curioso è come un accadimento improvviso sconvolga il trattato, stralci via i pezzi di carta a me poco graditi che torna il desiderio di riaverli all'interno della confezione. Il subìre, l'azione passiva, risulta perciò pesante. Ma nell'attendere un quantitativo necessario di forza volontaria per l'agire attivo, ecco che le motivazioni verso tale progetto svaniscono o cambiano forma. Parlo per astratto per celare. Un po' anche per mentire. Eppure la parafrasi al mio discorso scorre ora in un occhio, ora nell'altro, tormentando la connessione mente-mani a voler rendere la verità di pensiero. Allora ecco il collegamento con "di cui sopra"! Eccola, l'importanza minima esperienziale per cui un piccolo, insignificante geroglifico venga apposto all'interno di Caverna-Taverna! E io che pensavo di buttare il tempo. Due punti, ergo, li ho mandati a dormire. Rimane da giustificare l'ultima parte, quella concernente il computazionale e il sensori-motorio. Amo gli operatori elettronici, tanto da considerarli una casa, o un accogliente locale adibito ai rendez-vous. Superata la parentesi, utilizzo il personal-cogito allo stremo delle mie forze, vuoi perché coraggiosa a piacimento, vuoi perché trascorro la maggior parte dello scorrere temporale (contestualmente allo spazio) in solitudine. Quindi, coerentemente alla mia attitudine, dovrei preferire una teoria legata alla cognizione pura. Non tanto modulare, perché altresì ritengo che le varie parti del cervello comunichino e si ibridino, e che non ci siano programmi pre-installati adibiti a un'unica funzione. Allo stesso tempo, ammetto mio malgrado l'essenzialità dell'azione per una completa e complessiva memorizzazione nell'agire. In qualsiasi contesto. Personale e inter-relazionale. Finché la prassi mancherà di sopraggiungere, l'intero dibattito prenderà parte a un mondo fatato, e dove il mio stesso individuo continuerà ad adagiare la documentazione, relativa all'indagine, sulle nuove soffici pronte ad abbracciare un animo indeciso e dal corpo ferito. Sta poi, nel momento della tempesta, quando i simboli della quiete tenderanno a sgretolarsi incessantemente al suolo, la messa in scena dei canovacci redatti ma mai resi al pubblico. Perché il punto di rottura, seppur passivamente, giunge in ciascuno dopo l'accumulo di parole mai spedite ai mittenti o di azioni represse. Le catene sigillanti l'apparato motorio verranno ferocemente rotte e un'esplosione, intensa, pari alla notte di San Silvestro, renderà omaggio alla tortura interiore non imposta da alcuno, all'io-odierno necessitante di nuovi orizzonti. O almeno, tutto ciò ipotizzato, è una felice pittura speranzosa, nonché regalata al mittente silenzioso incastonato tra gli organi.