L'accaduto
Talvolta scrivo, senza aver bene in mente l'obiettivo del mio discorso. Probabilmente, i miei scritti non ne hanno mai avuto uno. O, forse, non sono una brava narratrice di storie. Ho impressa l'immagine di me stessa nell'atto di scrivere, mentre batto le mie dita sulla tastiera a ritmi incostanti. Vedo una ragazza, una donna, o non so bene ancora come definire la mia persona - sì, ecco: vedo una persona - che impiega i suoi sforzi nell'atto dello scrivere. Non so cosa sia piacevole trattare, eppure durante i miei monologhi tocco qualsiasi campo dello scibile. Al contempo, credo che a pochi interessi il mio punto di vista. E se fossimo costituiti da frammenti di punti di vista a cui non si è data, sostanzialmente, importanza fino al momento in cui li abbiamo tirati fuori dalla soffitta della scatola cranica? Ecco che tornano le speculazioni riguardo alla particolarità unica dell'uomo. Un insieme di accaduto.
L'accaduto è una macro categoria dove si racchiudono eventi singolari, significativi che, nel cerchio vitale dell'individuo, difficilmente vengono a ripetersi, cui si affiancano ai gesti superficiali, ai discorsi "per sentito dire" della quotidianità che, silenziosamente, aprono piccole cicatrici nella memoria di ognuno. Se veramente siamo un'opera originale-ma-non-del-tutto, potrei parlare per ore di numerosi dibattiti a cui ho presenziato all'ora del caffé mescolati a pezzi di sapere accademico, detti popolari o notizie prese dal giornale locale. Non dico nulla di nuovo, come nuova non sono io. Ma devo pure dar conto all'immagine di me che scrive, impressa sulle mie pupille e, in virtù di ciò, ogni riflessione è buona per continuare a spingere sopra alle lettere.
Cos'è accaduto finora? Partendo dalla genesi della mia vita, breve ma neanche appena cominciata, ho preso parola, per la prima volta, circondata da frammenti: persone che dormivano accanto a me, pezzi di case, pasti a portar via e tante, tantissime abitazioni di cui ora ho soltanto ricordi mnemonici o fotografici. Una costellazione poliedrica ed effimera, svanita con il ripristino della normalità. Una normalità che non è più quella di prima della frammentazione: rompo un vaso, salvo ogni coccio e provo a rimetterlo insieme. L'oggetto originario ritorna ma non è più al suo stato iniziale. Da una parte sono stata fortunata, dato che ero troppo piccola per ricordare prima-dell'accaduto. Al contempo, trovandomi nel-bel-mezzo-dell'accaduto, l'accaduto stesso e che ora è svanito era il mondo che sentivo proprio cui, ora, rivivo grazie a qualche nastro semirotto.
Necessito, sovente, dell'accaduto. Ho un videoregistratore ancora funzionante, sebbene i reperti videografici comincino a perdere colpi. Vedo me-al-passato, che canta una canzone cui potrei concedere una performance - per la gioia di ognuno, in solitudine - tuttora. Prendo un attimo: essendo un'ottima accumulatrice, oltretutto di parole, mi viene in mente di non aver mai buttato libri letti o quaderni scritti da me-al-passato. Prendo in mano gli oggetti in questione. Li sfoglio. Come Proust mentre addentava una madeleine, non soltanto ho negli occhi l'immagine di me che scrive o che legge quel racconto, ma rivivo i pensieri e le sensazioni provate in quel dato momento, lontano a livello spazio-temporale. L'accaduto, perciò, può accadere ancora, con i giusti mezzi.
L'accaduto-che-accade è una condizione constante della mia persona. Anche questa credo non sia una particolarità: ogniqualvolta l'uomo si ripromette di smettere di fumare, di non digitare più quel numero, di scialacquare meno o qualsiasi "questa è l'ultima volta", per poi compiere di nuovo determinati passi, ecco che l'accaduto torna. Non è una colpa, tantomeno debolezza. Trovo sbagliato utilizzare l'aggettivo "vulnerabile" senza prima riflettere bene sulla volontà reale. Mentre scrivo, sono sola, accanto alla stufa che, ogni tanto, chiede la mia attenzione e, allora, interrompo il mio flusso di coscienza. Riprendo, continuo a battere sulla tastiera e poi mi fermo. A un certo punto alzo la manica del maglione per scoprire l'orologio: se reputo sia tardi, chiudo lo schermo, riempio la vasca e poi mi butto nel letto, pregando che almeno stasera sia la volta buona che riesca a dormire. La piccola sequenza trattata è un eterno ritorno, traslando un poco il pensiero nietzscheano, che va avanti da almeno cinque anni. Non ho provato mai concretamente a cercare una soluzione, eppure mi lamento. Eppure, mi rendo conto che, da questa situazione, non sono sicura di volerne uscire. Un po' come quando sogno di andarmene e sparire, di voler diventare della stessa sostanza di un gas o del vapore acqueo. Poi mi ritrovo, quotidianamente, alla stessa ora, accanto alla stufa che, ora, chiede di me.
L'accaduto-che-accadrà è sconosciuto e segnato. Forse è seccante parlare tramite ossimori, ma senza ossimoro la vita non avrebbe senso. Dolce-amaro, caldo-freddo. Felice-triste, tranquillo-ansioso. Ecco, questa è la mia essenza. Il mio essere è una pedina nella scacchiera degli ossimori. Una battaglia senza cessazione, che alterna ore, giornate di una condizione a un minuto di massima tensione dell'altra. La Spannung, quella colma di significato, avviene nel momento in cui la musica di sottofondo non è più adatta, da tempo, ai locali del mio volere. Il cambio di genere può avvenire gradualmente, voluto o meno, oppure nel giro di pochi secondi. Dopotutto, i giri compiuti dai nostri passi, dalle lancette che accompagnano loro, dalla mente propria in sintonia con le menti altrui sono in continuo divenire. C'è un'ora che scocca più forte di altre, ed è quella che porta all'accadimento del volere represso. Il volume del contenuto si fa troppo ampio per il recipiente della cadenza costante, e l'uomo scappa dal Kitsch. L'uomo è pronto a gettarsi tra le fiamme dell'ignoto, portando con sé i ricordi dell'accaduto.