Morire da Robespierre
Non mangio pesante ma comunque lo stomaco è in subbuglio. Il digestivo servirebbe alle dita, che almeno sceglierebbero temi più interessanti da trattare in un qualunque sabato sera di fine inverno, all'interno di un blog dalla texture fantasma. Non mangio e mi capita spesso. Non che non mangi per giorni interi, ma che salti almeno un pasto al giorno. E non so cosa c'entri con il punto di partenza, ma ho sentito il bisogno di esternarlo.
Viene - alla mia persona - da chiedere: dal momento in cui sei consapevole di trattare un argomento pesante e di poco interesse, perché non tacere e tanti saluti? Questo tempo, a prescindere dal valore datogli dalla persona che lo detiene, non potrebbe comunque essere utilizzato per altri scopi?
Cerco. Cerco, cerco. Nei cassetti, nelle tasche. Nel secchio della spazzatura. Aspetta! Dietro alla luna piena, oppure sotto a un sasso. Meglio tra i libri, tra le pagine di centinaia di quaderni iniziati e mai finiti. Non finisco mai nulla, oppure comincio mille cose e mi illudo di portarle a termine decentemente. Lo scopo non c'è, si nasconde. Fugge tra il fumo di cento sigarette fumate a metà. Fumarne una intera diverrebbe il sinonimo di essere un vero fumatore, uno che fuma bene. Per quanto assurdo, anche questo ha la parvenza di un obiettivo raggiunto e non è uno status che mi appartiene. Lo scopo non c'è. Perlomeno, l'unico che finora vedo, è quello di condividere una recensione dei bocconi amari assaggiati.
Credo non sia l'unica persona che se ne nutra. C'è chi basa la propria dieta su di essi, chi bilancia quest'ultima con apporti calorici adeguati di momenti soddisfacenti e chi mette un anello, più che allo stomaco, alla superficie dell'espressione ultima. Ho provato con i filtri per anni, ma la vera essenza trova lo spazio di uscita sempre e comunque. Ne percepivo vergogna e mi coprivo di tessuti parodici, estrosi. Rido fuori dal tempo di battuta e affermo che vada tutto bene senza arcobaleni sullo sfondo. Coloro tra le righe con tratti imprecisi, bagnando le sfumature degli acquerelli con le ansie relative al fallimento dei progetti (che, auspicavo, fossero) futuri. Uno scrittore contemporaneo, con molta più esperienza sull'esercizio di scrittura, vedeva il casellario negli scritti degli anni Sessanta-Settanta. Sento vivida questa concezione dell'astrattezza non solo nella resa delle vicissitudini, ma anche nella preziosità presunta del tempo. Una vita passata a tirare sassi nel fiume per poi svegliarsi di colpo in un giorno di magra e realizzare che forse era meglio aver pescato per tutto lo scorrere, dell'acqua e delle lancette. Agli occhi dell'intraprendente è mera pigrizia. A quelli del pietoso una condanna all'assistenzialismo mancato. A uno sguardo complice, una di quelle terminologie intraducibili, almeno appieno, da una lingua all'altra. Una Zweisamkeit all'interno dello stesso baratro. Al di là del fondo.
Una mano scava la terra e l'altra implora comprensione al simile. La comprensione non può essere codificata dall'universalità, poiché le situazioni individuali entrano prepotentemente in partita. Anzi, sono l'allenatore, mentre il cambio è affidato al ragionamento "a posteriori". Una variazione di chilometri, di titolo di studi. Di vita in toto. E i sassi continuano a volare sopra alla testa piena di fardelli impotenti, che vorrebbero ballare in pista insieme alle altre, raggruppate in convivi leggeri com'è consueto nel fine settimana. Eppure, si noti come l'essere umano sappia dissimulare il dolore quanto si mescola nelle norme sociali.
Detesto il ricorrere agli in-group quanto l'etichetta di depressa cronica o di una che si contenta. Je suis toujours insatisfaite, ma senza appartenere ad alcuna corrente letteraria. Il male più grande che mi abbia colpita sin dalla nascita è il pensare, profondamente, ai sentieri. Nel momento in cui percorro una strada rettilinea, sento di dover addentrarmi in tutte le deviazioni che incontro. Una volta comprese le mete, allora invertire e tornare alla direzione di marcia originaria. Chi soffre di questa patologia si trova prevalentemente a scalare, in progressione, qualche nome dalla lista degli amici, a giustificare costantemente le assenze presso i luoghi d'incontro sociali e a dare l'impressione di essere uno scansafatiche da quattro soldi che preferisce una vita piatta, o non troppo diversa da quella intrapresa, anziché gettarsi concretamente tra le fiamme del vissuto. Gli incendiari, di solito, hanno case solide, stipendi della generazione prima di loro da permettere un margine d'errore azzardato e un supporto costante nello scegliere. C'è da dire, in loro difesa, che non si sentono in colpa nel chiedere aiuto, cosa che, al contrario, detesto quanto il ricorrere alla società per dissimulare il fatto che ne abbia bisogno.
Allora penso finché non ho bisogno di un bite per fermare la mascella di notte, o della puntura anti-spasmi della guardia medica. Finché non sento di nuovo la necessità di mandare giù un boccone sostanzioso a livello nutrizionale, e a respirare la brezza gelida in volto che, stranamente, appare tanto confortante. Apro la porta alle stelle, che amo di gran lunga rispetto alla luce del giorno, e cerco di tracciarne una speranza buona che, quelle aspettative, stiano in aspettativa piuttosto che sul tavolo in attesa di autopsia. Dopotutto, una ragione di vita è necessaria per ritrovare il senso del ritmo.
L'ho compreso in una delle prime giornate di dicembre. Una domenica mattina, a poche settimane dalla festa che detesto di più al mondo insieme al chiedere aiuto e al ricorrere agli in-group. Andavo a lavorare, con la felicità di chi sa già di dover affrontare l'esercito del pensierino all'ultimo minuto. Quindici minuti d'auto e tre climi distinti ogni cinque chilometri. Prima il sole, poi la pioggia. Il terzo mi ha lasciata di sorpresa. Un tratto coperto, sia nella visuale che dalla grandine. La radio narrava dell'esame di seconda elementare, intrapreso dal cantante, nel millenovecentosettantacinque. La maestra chiese di Massimiliano Robespierre e l'autore rispose che i Giacobini, terrore o no, avevano fatto la cosa giusta. Nel momento in cui la maestra non ritenne di fare ulteriori domande, era troppo tardi per frenare. Il veicolo comincia a sbandare, la velocità era troppo elevata e sentivo di spiccare il volo, per la prima volta nella mia vita. Certo, immaginavo la partenza dalla cima di una montagna, magari su di un deltaplano, anziché cadere da un cavalcavia. Non so ancora come l'auto si sia fermata a un centimetro dal guardrail, il tempo di poter sterzare a occhi chiusi e compiere un'ultima piroetta, finendo nella corsia e in direzione opposta. Apro gli occhi: lo spettacolo continua. C'ero io e una macchina rossa, piena di dolci sguardi che si sono offerti di scortarmi. È silenzioso fuori dal centro commerciale, probabilmente la gente, nella mattinata di una domenica di dicembre, preferisce stare a letto un'ora in più. Forse, il Natale è meno consumista di quanto l'abbia sempre voluto dipingere. Forse è giusto abbandonare, quand'è possibile, il pregiudizio.
Forse, alle volte si può smettere di pensare anche senza morire.