No Time No Space

26.11.2020

Parto già con una titolazione non mia. La canzone, di Franco Battiato, contenuta in "Mondi Lontanissimi" del 1985, mi ha fatta sempre "viaggiare" in quei territori di cui non sono a conoscenza. Di uno spazio-tempo ben al di sopra del mio attuale. Forse, un non-spazio-tempo, un vortice di luce dove immagino ci sia io, con dei pattini, a fluttuare nella materia. La polvere bianca si aggroviglia intorno al mio corpo, pur non stringendomi tra sé. Eppure ne comprendo il significato. Memorie di un'altra vita. Quella appena messa in pausa. La pausa dalla vita è affascinante o, almeno, credo lo sia. Ogniqualvolta richiudo il portone della mia casa e, per puro caso, mi ritrovo circondata dal silenzio, ecco che torna il ritornello: "no time, no space, another race of vibrations/the sea of the simulations", e i miei occhi si richiudono tra le comete fittizie della mia mente. Adoro questo universo parallelo di cui unicamente io non soltanto ne conosco l'accesso, altresì ne decido la sceneggiatura. Ciascun personaggio, neonato o attinto dalla realtà terrena, produce significato attraverso il mio volere. Qualcuno potrebbe farmi notare, data la mia passione per il videoludico, che da anni sono stati creati simulatori di vita. Ma non è la stessa cosa. Prima di tutto, per la tempistica da dedicare alla ricostruzione in scala dell'ambiente e della fisicità dei personaggi. Inoltre, per quanto più sviluppati nell'evoluzione, la limitatezza dei simulatori - anche utilizzando i cosiddetti trucchi - consiste nella stessa delle macchine. La coscienza. Altrimenti, uomo e macchina coesisterebbero alla pari. Un umanesimo-umanoide. Non posso sfaccettare una determinata emozione del personaggio giocabile in ogni momento. Nella mia mente, sì. E non necessito di alcun dispositivo per avviare il gioco, tra l'altro: basta un qualsiasi buco temporale, come l'attesa dal dottore, la fila al banco del pane. Un minuto senza corpi attorno. Senza respiri pesanti. Io e la mia testa. La creatività che mi trascina via dal peso gravitazionale. La verità per cui mi richiudo in tale contesto sta nel fatto che mi terrorizzano le interazioni solide. Quelle cui un uomo si trascina dietro e talvolta chissà perché. Credo di averne già discusso, in precedenza, ma non ricordo bene. E poi, torna tutto, nel mio flusso. Insomma, detesto uscire con qualcuno per abitudine anziché per condividere. Non uno oggetto specifico, sia chiaro: ciascun rendez-vous, tuttavia, nel mio immaginario, deve avere uno scopo. Anche fosse per un banale aperitivo - cui detesto quanto le interazioni obbligate -. Ho un computer. E vedrai! Che affermazione. La stragrande maggioranza della gente che conosco possiede un elaboratore elettronico. Un po' come dichiarare "ho un frigo! Ho un lavandino!" Personalmente, il pc rappresenta sì il tetto sotto cui giacciono le mie stanze virtuali e dove condivido le mie riflessioni, o meglio, tengo camere similmente a un hotel. Gente che va, gente che viene. Nel momento d'avvio, ecco che giornalmente si innescano continui rendez-vous. E il tempo? Beh, quello sta nella sostanza dello scambio di missive virtuali a decretarlo. No time. Relativamente allo spazio. potrebbe essere inesatto affermare che non ci sia, poiché circoscritto all'interno di una chat a sua volta contenuta in un determinato social. Tutto, al di sotto delle tegole del cervello artificiale cui fa da mediatore alle mie dita. Un meta-spazio. Il vero e proprio No space è dato maggiormente dall'abbattimento dei confini geografici e linguistici. Non necessito, ora, di somme eccessive o un'ottima conoscenza del parlato altrui. Superato è anche l'ausilio delle lingue pidgin - anche se, sovente, risultano utili per comprendere un termine sconosciuto -. Parte la catena dell'ingranaggio di incontro, la sabbia scende nella clessidra vitale e gli scambi proseguono. Se la valutazione è positiva, rimettere in atto una condivisione ideale è semplice, economica e sfuggente alle differenze di fuso orario. Tutto consiste nella disponibilità degli interlocutori. Sicuramente, risulta più conveniente rispetto a un rendez-vous di tipo facciale anche in senso estetico: è possibile indossare un abito da sera, una vecchia tuta. Si può anche non indossare niente. Quello che conta è soltanto il ritmo serrato dei tasti da battere, oppure, se si è particolarmente pigri o il concetto è ben complesso da trascrivere - basterebbe una buona capacità di sintesi ma, talvolta, risulta riduttiva-, è possibile inoltrare la propria voce. Poi, se una simil-fisicità è desiderata, ecco che arriva la chiamata video. E il tutto assume un atteggiamento più reale. E io, rifuggo. Detta così sembra che scacci ogni pensiero a un rendez-vous di persona, quando nella quotidianità avviene l'esatto contrario. Li definirei, se mi permettete, meetings. Il termine anglofono, in qualche modo, attribuisce all'immagine un connotato di obbligatorietà, contestualmente a una situazione lavorativa o comunque non voluta nel complesso. Il rendez-vous, al contrario, richiama la scena del Piccolo Principe. Qualcosa di cui sento desiderio già da prima. Non sempre l'oggetto del desiderio è ricoperto di plastica. Per questo, forse, detesto anche le tradizioni. Ahimé, potrei cadere nel superficiale e/o nel riduttivo ma, con l'avanzare del tempo sociale, le date segnate in rosso nei calendari hanno assunto la forma di uno scaffale del supermarket. Natale è la luce dell'Albero e il pacco da scartare, non più il sentiero stellato che, secondo Lutero, indicava la via. Un pranzo pieno di cibo che, già dalla sera, diviene un peso duplice e un incontro pieno di sorrisi che comincia e finisce nell'arco di meno di ventiquattro ore. Non ho bisogno del giorno dedicato alla nascita di Gesù per dedicare un pasto ai miei cari o un pensiero alle persone più vicine. Tantomeno, non necessito di traslare il dono della vita nella piena povertà nel bel mezzo di ogni qual si voglia merce. L'eccesso di merce di irrita quasi più della privazione. Anzi, potrei ben dire, di più. Educare le generazioni alla bontà per ottenere premio X lo trovo ancor più sconcertante. Un po' sullo stile del codice associativo con cui si educano i cani: se alzi la zampa ricevi il biscottino. Se studi il regalino. La cultura in cambio dell'ultimo modello di un iPhone, prima, poi di un succulento stipendio. E la passione? Quella ve la rubo io. L'atmosfera natalizia mi piace, fondamentalmente, per il passaggio circostante alla mia persona nei non-luoghi. Ecco quando amo i rendez-vous: nel momento in cui non sono organizzati da me. Stazioni, centri commerciali. Piazze o sale d'attesa. Un faccia a faccia inaspettato e senza definizione d'età, genere o provenienza. Io e l'Altro, o gli Altri, in un lungo o breve momento ma comunque effimero, scambiamo pezzi di vissuto, talvolta approfonditamente. Talvolta, molto di più rispetto a chi si conosce da sempre. Perché l'Ignoto non ha modo di decretare una sentenza senza documentazione. L'ignoto, non sa dei Super Testimoni quali, spesso, vengono corrotti da un vicinato sociale scomodo o tirante acqua al proprio mulino. L'Ignoto è il personaggio non giocabile concretizzatosi al momento nel simulatore di Dio. E io parlo incessantemente, affido al portatore labile di confidenza un frammento scomodo del mio io-passato, fantasma di quello odierno, e viceversa. "Keep your feelings in memories/I love you especially tonight". Il fascino di un rendez-vous senza organizzazione risiede nel non-rapporto chiuso nel non-spazio/tempo. Questo, è amabile per me quanto tornare al mio albergo virtuale. L'unico inciampo nel tragitto che potrebbe verificarsi è nel desiderio sbilanciato di un ulteriore seguito speculatorio. Ovviamente, per far sì che il meccanismo funzioni, il processo deve continuare o finire in accordo tra le due parti. Altrimenti, ecco che si ripresenta il fantasma del passaggio obbligato. Difficile è mantenere un complessivo e paritario bilancio di parole per ciascuno. Una cosa che amo molto, di questi scambi, è la formalità con cui spesso viene a stendersi il pergolato dei racconti: la terza persona singolare. Finché la struttura orbita intorno a tale pronome, la parità è garantita. Sta ai partecipanti poi, decidere, se e quando arriverà il punto della non-alienazione, dell'informalità. Della confidenza intesa dall'uomo Kitsch. Non che tutti i rapporti siano dettati da un accordo categorico con l'essere, certo. Ma è come quest'accordo intende tali interazioni il tracciato di ognuna, sia pur sentita veramente. Ho pochissimi rapporti cui tengo più della mia stessa esistenza. Sono felice di ciò, poiché ho saputo comprenderne la portata emozionale e l'importanza reciproca tra soggetti. Finanche nell'apprezzare i rendez-vous. Finanche, nel saper quando uno di questi esce dal parallelo per imprimersi nella lapide da cui prende vita il mio Geist. 

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