ParaGone

01.03.2023

Una cosa ha sempre accomunato chiunque fosse vicino alla mia persona: l'impressione che la mia camera assomigliasse a un bazar. In realtà, ne ho avute due, tra le più longeve. Poi tre, quattro. Alcune di passaggio, ma le prime due sono quelle stabili. Alla terza, comunque, non vorrei sbattere la porta dei ricordi in faccia, poiché esteticamente scarna, eppure talmente più affine alla mia persona, in quel dato periodo e, a intermittenza, ripensandoci, tuttora, che fatico a celare il mio dispiacere per averla dovuta abbandonare. A rappresentarmi di più, tra la mobilia ceduta temporaneamente in dotazione dalla casa dello studente, quell'enorme lampadario in led che pendeva sopra al mio letto, Qualche volta, la luce partiva per poi tornare tempestivamente. Mi confortava, quell'enorme rettangolo che proiettava la propria ombra nel silenzio della stanza singola, ottenuta dopo tre anni di convivenza. L'assenza di suono, ricordo, veniva interrotta solamente dalla goccia sporadica che cadeva dal lavandino, nascosto in una intercapedine tra un piccolo armadio e il nulla. Quella mancanza di estetica, posso asserire, era l'altra faccia della mia medaglia personale. 

Torno però, ora, alle mie due camere. La prima, è quella che ho insistentemente bloccato dal flusso spazio-temporale. O meglio, ho aggiunto soltanto oggettistica varia negli anni, senza mai togliere nulla. Neanche i poster di cantanti risucchiati dall'oblio della celebrità. Almeno, qualcuno li ricorda. La mia corona di laurea, per esempio, poggia alla sinistra di un'immagine di Rey Mysterio al culmine della propria carriera. Eddie Guerrero era ancora il suo rivale e al contempo migliore amico. Sperimentavo bizzarre presentazioni in Power Point dove omaggiavo i miei amici più stretti nelle nostre performances teatrali e canore del sabato pomeriggio. Un mondo piccolo e ideale, dalla bizzarria leggermente anomala per un piccolo luogo circondato prevalentemente da boschi. La croce, vegliante da vent'anni sopra alla mia testa, nonché solenne in cima alla collina, fa da cardine nel flusso dei ricordi amichevoli e solitari. 

Arriva il momento di ricongiunzione con la mia seconda camera, quella che la natura mi strappò nel 1997. È il 2010, ho quasi quindici anni e di essa alcuna memoria, se non quando mio zio, nel '99, decise di riportarmi lì per un istante. Non so cosa abbandonai, francamente: cosa lascia un bambino di due anni, dopotutto, materialmente o essenzialmente? Eppure, tra le macerie, ricordo solo che indicai un comodino. La parola "cane" contorna queste poche immagini, seguendo la mano della vigilessa che, aprendo effettivamente lo sportello, trova un salvadanaio a forma, appunto, di cane. Sin da subito, la vita mi ha messo di fronte al fatto che la memoria non cancella totalmente il vissuto, un po' come i caricamenti su internet. Talvolta, è necessario armarsi di una pala resistente per scavare, e magari scavare per anni, pian piano, giorno dopo giorno, notte insonne dopo notte insonne. Ma con la volontà di pensiero, assicuro, riemerge tutto, Devo, tuttavia, constatare che, nel 1999, il mio sistema operativo era pressoché nuovo. L'efficienza, a distanza di ventiquattro anni, dimostra di non essere più quella di un tempo. E allora perché, mi chiedo, non esiste un hard disk cerebrale? Una cosa è certa: impossibile è pretendere che la memoria esterna venga vegliata dalle persone a noi vicine. Tantomeno da filmati e fotografie: sì, perché questi vengono elaborati da qualcuno al di fuori, e perciò l'occhio narrante è al di fuori. Poiché sia tale, una narrazione personale deve scaturire dal proprio io. In ciascun momento da cui questo io inizia il processo di respirazione nel dehors del grembo materno. 

Accumulo oggetti a caso, nella seconda camera, comunque. Ci sono quadretti acquistati in giro, con  mia madre, immaginando questo eventuale trasferimento, che ancora devo appendere al muro. E neanche abito più in quella casa. Sapevo che, non troppo lontano nel tempo, avrei dovuto lasciare anche quella abitazione, una seconda volta, procedendo verso il futuro accademico non da me tanto atteso. Eppure, questa forzatura esogena, al pari della foto in cui ti viene intimato di sorridere, ha aperto le porte a nuovi scenari. Fuori dalle mura di pietra tirate su dopo il '97. E quel bazar, con la lampada fluo stante accanto al Das Kapital, sembra più ordinato di come mi apparisse, fino al momento epocale, in realtà. Potevano convergere in me più anime: quella logica, quella ludica, quella filosofico-artistica. Quella tecnologica e quella apparsa in quel momento per poi sparire dopo qualche mese, dando vita a un progetto unico e inimitabile. Ciò che l'io ha di unico si cela appunto in ciò che l'uomo ha di inimmaginabile, prestandomi, come di consueto, un concetto da Milan Kundera. Amo il linguaggio informatico ma decido di studiare il germanico, Büchner e Gianni Celati. Il linguaggio delle api, l'inglese. Dopotutto, qualche anno prima, essendo tra le più brillanti studentesse di lingue straniere della mia piccola classe di paese, mi fu consigliato di proseguire gli studi linguistici. Altra narrazione esterna che, forse, non batteva completamente con il mio volere. Non voglio però incentrare il mio flusso insignificante in un ancor più insignificante j'accuse che ha colpito il 99% circa dei miei conoscenti, quanto piuttosto come questo acconsentire sia dilagato in tacita sottomissione, nel girare delle lancette. 


Che non sia un'amante della cadenza, è possibile constatarlo dalla non-puntualità di questi scritti che, sovente, condivido con voi, con questo pubblico dal sapore etereo e a cui non saprei dare sembianze umani differenti dai miei tratti somatici - preciso, quelli che lo specchio mi ridà indietro -. Volevo studiare recitazione, alla fine del liceo. Ricordo quella giornata, presso una Accademia nei pressi di Roma, accolta dai miei accompagnatori alla stregua di una pièce teatrale o di un film al cinema. Un futuro, in provincia, ha l'odore di accademia, fuso alla lamiera proletaria da cui si parte. L'operaio scappa dalla sua miseria per realizzare qualcosa di buono nella vita, innalzare il cognome per raggiungere la hit parade delle famiglie rispettabili. L'importante, è passarci per una università, senza rompere troppo i coglioni nel complesso. Lo studio-investimento; il riscatto dalla miseria economica e intellettuale; il vanto con le amiche alla cassa del supermercato. L'alloro che non è solo condimento per il pollo. L'illusione che, in un piccolo paese nella fascia tra le più depresse del centro Italia, lo studio offra le stesse possibilità lavorative ed esperenziali che in posti attigui più fortunati, associata a quella che, senza alcun tipo di stimolo esogeno, si possano raggiungere risultati allo stesso modo soddisfacenti. 


Non nascondo una crescente depressione che tendo ad attribuire completamente alla personale mancanza di coraggio. Ora però vorrei uscire dal mio pensiero per tendere la mano a tutti coloro che si trovano nella mia stessa situazione: com'è possibile raggiungere il risultato di un medesimo coetaneo, seppur conterraneo, ma con differente situazione economica e senza possibilità, non dico gratuita, quantomeno accessibile? Sorrido ai tanti che lodano l'offrirsi a un lavoro, per alcuni mesi, al costo quasi pari a zero, perché poi arriva la retribuzione quella buona. Ai tanti, chiedo sempre di mostrarmi la propria situazione reddituale corrente, per poi ovviamente restituire loro l'immagine della mia. L'illusione che sia possibile intraprendere la stessa vita di un qualsiasi coetaneo senza muoversi dal territorio natale, eppure non andarsene da esso poiché sarebbe troppo doloroso per tutti. La tua ambizione viene relegata a hobby personale, mentre si ricerca una occupazione per sopravvivere, contornata da una vita più affine al territorio di residenza. 

È mancanza di coraggio, oppure di cultura precedente al momento accademico. Una cultura che veicola gli studi verso a ciò che sia più conveniente per un futuro lavorativo stabile, che porti all'aquisto di una casa, al poter costruire una famiglia di proprio gusto. In un mondo cui il precariato è dilagante e il capitalismo urla alla flessibilità oraria e lavorativa, al sempre più grande calo di natalità ma che va bene così, al remoto che permette di stare incollati a pratiche e progetti anche dal gabinetto. I miei coetanei cittadini, sono forse più allenati, anche solo per sentito dire, a tali pratiche, sbarcate attualmente anche tra i boschi tanto confortevoli, che compongono il bias che colpisce chiunque si trovi ad abitare nella provincia, dove la cultura pretende un determinato tipo di tradizione, ma la società contemporanea te ne impone un'altra. C'è chi le fa convergere, queste due vite. Altri, ne scelgono una. La più intrapresa, è la pratica di rinunciare alle ambizioni maturate dopo l'orale che sancisce la fine della scuola dell'obbligo, quelle aspettative che avrebbero dovuto comporre il proprio io professionale. In aspettativa, le aspettative vengono sostituite dalla stabilità dei fiori che crescono, in un giardino scricchiolante, che regala attimi di pura felicità in una moltitudine di specie di frustrazioni e rimpianti. Perché la provincia sa profumare di purezza e povertà, non tanto economica, quanto socio-culturale. Talvolta, mi capita di scappare, dalla provincia. Non con il corpo, quanto con la mente. I piedi affossano nei boschi che tanto ho amato, che tuttora amo, con le mani rivolte all'affetto che ho anteposto a quei dubbi di cui non so se conoscerò mai risposta. La mente, capita, che pianga lontana lontana, in un vortice di immagini che riportano al momento in cui indico il comodino tra le macerie. Era allegoria di rinascita, eppure credo di essermi sepolta lì, già in quel tempo. Inconsapevolmente. 

 

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